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BEATA
PIERINA MOROSINI
Quando Pierina Morosini
venne mortalmente aggredita, fu subito accostata a Maria Goretti. Ma rispetto
alla ragazza non ancora dodicenne, che il 6 luglio 1902 alla Cascina Antica
delle Ferriere di Conca, a dieci chilometri da Nettuno, nell'Agro romano, si lasciò
uccidere con ventiquattro pugnalate per difendere la propria illibatezza, la
Morosini è poi sempre rimasta nell'oblio, quasi in coerenza con lo stile della
sua esistenza interamente condotta nel riserbo e nel nascondimento. Eppure
Pierina Morosini della quale in questi giorni si compie il quarantesimo
anniversario del sacrificio ha molti motivi per essere ricordata ed esaltata,
nella esemplarità e modernità della sua figura. È arrivata alla gloria degli altari in soli trent'anni e
sei mesi la sua beatificazione è avvenuta il 4 ottobre 1987, durante
l'assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata al tema «Vocazione e missione dei
laici nella Chiesa e nel mondo» a vent'anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II
; affrontò la prova suprema a ventisei anni coronando in modo eroico
l'impostazione dell'intera sua vita, salvaguardando con la sua purezza,
liberamente scelta, la sua dignità di donna. Giustamente è stato osservato che
se Maria Goretti è santa perché martire; Pierina Morosini fu martire perché santa;
di una santità particolare, costruita sulle piccole vicende quotidiane
accettate e interpretate in totale adesione a Dio. Primogenita di una nidiata
di otto fratelli e sorelle, Pierina Morosini nacque in una famiglia poverissima
il 7 gennaio 1931. Crebbe in una cascina, la Cedrina Alta, edificata su uno
spiazzo delle pendici del Monte Misma, nel cuore della Valle Seriana, una delle
aree più industriose, specie per il ramo tessile, della provincia di Bergamo e
dell'intera Lombardia. Apparteneva alla parrocchia di Fiebbie non molte
centinaia di anime una delle otto frazioni del Comune di Albino. L'isolamento
dell'abitazione tra i boschi accentuava i disagi tanto per dire, la luce
elettrica arrivò soltanto nel 1956 di una comunità domestica, resa più
numerosa dalla presenza di bambini accettati a balia, che campava sul salario
del padre, occupato come guardia notturna in uno stabilimento della zona, e sul
poco che dava il lavoro della terra. Sara Neris, la madre, era il vero angelo
del focolare. Tra le sue mille incombenze poneva in primo piano l'educazione
religiosa della prole al punto da diventare una valente catechista domestica. Ben presto cercò ed ebbe
una «spalla» in Pierina, la quale all'età di sei o sette anni si trovò «piccola
donna» occupata nelle faccende di ogni giorni, nella custodia dei fratellini,
delle sorelline e le altre necessità, tra la cascina sul monte e il borgo nel
fondovalle (mezz'ora circa di buon cammino). Andò pure da sarti per imparare ad
aggiustare, riassestare e riutilizzare fino all'ultimo i capi del guardaroba
modestissimo di famiglia. Ma a poco a poco Pierina Morosini si inserì anche
nella Parrocchia, distinguendosi nel fervore della partecipazione alle varie
funzioni, aderendo alle diverse iniziative. Soprattutto prese l'abitudine di
assistere ogni giorno, prestissimo, alla Messa, di fare la Comunione e di
trattenersi per lunghi momenti in chiesa a pregare da sola, in un banco in
fondo alla navata. Era facile notarla perché, estate e inverno, indossava
sempre un grembiule nero, su calze nere e grosse e zoccoli ai piedi: una sorta
di divisa che si era imposta autonomamente, un po' per le scarse possibilità
finanziarie della famiglia, un po' per vivere a suo modo almeno nell'ambito,
quell'ideale di farsi monaca e coltivò e manifestò costantemente senza mai
poterle realizzare per la indisponibilità della sua presenza in casa. All'aiuto
pratico per le costanti esigenze aggiunse infatti presto pure quello della sua
busta paga, perché a quindici anni appena compiuti, nel marzo del 1946,
cominciò a lavorare come operaia nella filaturatessitura di cotone «Honegger»
di Albino, stabilimento situato a circa quattro chilometri dalla Cedrina Alta:
Pierina li percorse sempre a piedi, quasi costantemente da sola nella parte
sulla dorsale del Monte Misma, sgranando le Ave
Maria del Rosario, alternate a giaculatorie e ad altre preghiere. A seconda
dei turni (ore 6-14 e 14-22) soleva prima di entrare in fabbrica oppure
all'uscita sostare e nella prepositurale di Albino all'alba, con qualsiasi
tempo, per ricevere la Comunione e seguire una parte della Messa e al
Santuario della Madonna del Pianto che si affacciava proprio sul suo
itinerario. Della sua convinta
religiosità offriva continua testimonianza pure sul posto di lavoro, con visite
nella Cappella interna durante gli intervalli autorizzati per i pasti e con una
condotta rigorosa, riservata, compunta: orazione personale mentale e
bisbigliata al posto delle chiacchiere e delle battute, di solito salaci e
addirittura volgari, con le colleghe. Il suo contegno era così semplice e
naturale che anziché derisione come purtroppo spesso avviene in casi analoghi
le procurava ammirazione, rispetto, stima. Ella aveva via via
profondamente assimilato quegli atteggiamenti intrecciando gli esempi avuti in
casa, tutti ispirati alla più genuina tradizione cristiana, saldamente
radicata, specie allora, nella terra bergamasca, agli insegnamenti ascoltati in
Parrocchia. L'adesione alla Azione Cattolica, inizialmente come semplice
iscritta e poi come dirigente, sia pure a livello locale, aveva moltiplicato
enormemente per lei le occasioni di formazione attraverso incontri, conferenze,
esercizi spirituali. Correvano gli anni della grande «crociata per la purezza»,
lanciata nel 1942 sull'onda del buon esito di una prima pressoché analoga
iniziativa proposta nel 1926. «Eucaristia, castità, apostolato» erano le tre
parole chiave di un programma di vita che la stampa della associazione
continuava a sostenere nella attenzione delle iscritte con esortazioni come
queste: “Devi resistere pura in mezzo a tanto peccato. È il tuo martirio, il
martirio di ogni giorno. Devi sopportare in silenzio il martirio di tutti gli
istanti, le tentazioni di tutte le ore. Ti voglio vedere, ogni volta che ti
incontro, con il volto puro, raggiante di pace, luminoso di gioia: la pace di
chi non teme il male perché porta in sé la forza di Cristo, la gioia di chi ha
vinto anche se per vincere ha dovuto soffrire molto; e piangere...». Pierina Morosini prese
queste sollecitazioni come regole, ne intensificò la forza con letture di vite
di Santi, raccolte di massime e pagine di meditazione, da cui trasse
testualmente e rielaborate, indicazioni che diventarono l'irrinunciabile
binario della sua esistenza: «La verginità è un profondo silenzio di tutte le
cose della terra», «Francesco di Sales non fu santo che a forza di combattere
contro se stesso: io lo imiterò, «Il mio amore, un Dio Crocifisso; la mia
forza, la Santa Comunione; l'ora preferita, quella della Messa; la mia divisa,
essere un nulla; la mia meta, il cielo»; «La mia vocazione: mi lascerò condurre
come una bambina di un giorno solo». Con pensieri e propositi come questi, già
assorbiti e in via di acquisizione, Pierina Morosini alla fine di aprile del
1947 visse l'evento più importante e unico della sua breve esistenza: il
pellegrinaggio con l'Azione Cattolica, di sei giorni, a Roma per la
beatificazione della fanciulla dell'Agro Romano che era stata l'emblema, la
figura dominante della lunga «crociata per la purezza». Per l'occasione rinunciò
eccezionalmente al grembiule nero e alle calze di lana e agli zoccoli,
sostituendoli con un abitino, un soprabito chiaro e un paio di sandali
prestatile da una zia. Sentì così intensamente quell'avventura da
cristallizzarla lei che aveva frequentato appena la quinta elementare in un
diario personale di pochissime ma pregnanti pagine. Sorprese le compagne per
l'estasi di fronte ai solenni riti, ma soprattutto le stupì quando disse e più
volte confermò: «Come mi piacerebbe fare la morte di Maria Goretti!». Esattamente dieci anni più tardi anni vissuti tutti con nuovi impegni di
apostolato (zelatrice per il Seminario e le Missioni, maestra di dottrina
cristiana, assistente di ammalati, animatrice di associazioni cattoliche) e con
crescente zelo di fede (sotto la guida di un padre spirituale) il Signore le
diede il modo di dimostrare la sincerità e la saldezza del suo proposito. Nel pomeriggio del 4 aprile
1957 fu trovata agonizzante da un fratello sul sentiero del bosco che stava attraversando
al ritorno dal lavoro: giaceva con la testa fracassata da un masso e in mano la
corona del Rosario che stava recitando. Portata all'ospedale di Bergamo vi
spirò la mattina del 6 aprile un sabato senza aver ripreso conoscenza. Le
indagini, dopo lunghi accertamenti, portarono all'arresto di un giovane di
Albino, poi processato e condannato con sentenza definitiva del maggio 1960, a dieci anni e undici
mesi di reclusione (otto anni e undici mesi per omicidio preterintenzionale
due dei quali condonati, due anni per violenza; estinzione per amnistia del
reato di atti osceni). Il «caso» giudiziario si chiuse nel maggio 1963 con il
no della Cassazione ad ogni ulteriore ricorso dell'imputato, che tornò libero
nel 1965. Nel frattempo però sulla storia
di Pierina Morosini si stavano muovendo i primi passi di quel processo, prima
diocesano e poi in sede romana, che l'ha portata in tempi molto rapidi alla
gloria degli altari. In una Lettera pastorale il compianto Monsignor Giulio
Oggioni, a quell'epoca Vescovo di Bergamo, l'ha indicata come luminoso esempio
di «una santità straordinaria nascosta e popolare», alimentata dalla famiglia,
dalla parrocchia, dalla più genuina tradizione cristiana della gente
bergamasca. Oltre che nel martirio
consapevolemente affrontato nella tutela della propria verginità e dignità, il
messaggio di Pierina Morosini innamorata della purezza, perfetta donna di
casa, lavoratrice irreprensibile (negli undici anni in cui fu operaia
tessitrice), laica impegnata si sostanzia in una giusta valutazione dei beni
terreni per lasciare tutta la dovuta preminenza a quelli eterei («Posseggo Dio
soleva dire e questo mi basta»); in un invito ai credenti a sentirsi
comunità di fratelli che si amano in quanto tutti figli di Dio; in una
semplicità aperta e accogliente verso l'insegnamento della Chiesa quale
criterio per discernere con oculatezza tra i messaggi di secolarità che
provengono dalla cultura attuale. Dopo la beatificazione e
prima della collocazione definitiva nella chiesa parrocchiale di Fiobbio,
l'urna con le spoglie mortali della giovane è stata portata in un lungo
itinerario attraverso l'intera provincia bergamasca. La ragazza definita
«incredibile», per l'altezza delle sue virtù praticate nella massima umiltà, è
passata così tra la sua gente come esempio del cammino per arrivare a Dio. In
questi dieci anni la sua gente e altra venuta da lontano è tornata
costantemente da lei, a Fiobbio, per imparare meglio a seguire i suoi passi.
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